Nessun Destino è segnato

Oggi vi propongo l'intervista allo scrittore Luca Mirarchi, autore del primo libro dedicato a Casa Emmaus, storica organizzazione dedita alla cura delle dipendenze patologiche e all'accoglienza dei richiedenti asilo, nata ai piedi del Marganai.

Per maggiori info su casaemmausiglesias.it

 

Chi è Luca?

«Sono un uomo di quarant’anni che non ha mai smesso di interrogarsi su quello che lo circonda. Non vado d’accordo con chi ha troppe certezze o si colloca su un piano di superiorità nella relazione con gli altri. Il mio lavoro da giornalista mi ha insegnato a pormi in una posizione di ascolto verso gli intervistati. È quello che ho fatto anche durante le interviste che costituiscono gli assi portanti del libro. Pazienti, ex pazienti, familiari, operatori: per me sono tutti accomunati dal fatto stesso di essere umani».

 

Come nasce il libro “Nessun destino è segnato?”

«Ho trascorso un anno collaborando alla comunicazione di Casa Emmaus. Nei primi sei mesi mi sono dedicato soprattutto all’organizzazione di un congresso, “Aprire Orizzonti”, che si è svolto nel novembre 2019. Gli altri sei mesi li ho dedicati principalmente alla realizzazione del libro. L’idea è venuta alla direttrice della comunità, Giovanna Grillo, e io non mi sono tirato indietro, anche se non è stata un’esperienza facile. La professione ti spinge a indagare più a fondo possibile nella storia dell’intervistato, la sensibilità ti fa indietreggiare quando ti rendi conto che stai andando a toccare delle corde emotive sensibili dell’interlocutore. In questo caso le tematiche trattate, il dolore che hanno provato molti degli intervistati e le difficoltà che hanno dovuto fronteggiare nella vita hanno reso l’operazione ancora più complessa: bisognava muoversi lungo un crinale sottile, cercando di equilibrare le due esigenze. È quello che ho cercato di fare. Ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa».

 

Le storie ci aprono a un mondo di cui non siamo i soli abitanti. Di quale mondo ci parla il tuo libro?

«Sono le storie di chi ha smarrito la strada ma ha trovato la forza di mostrare la sua debolezza, il coraggio di farsi aiutare. Sono le storie di persone che spesso provengono da contesti socioculturali fortemente penalizzanti, ma anche quelle di persone che pur non avendo incontrato particolari ostacoli, in apparenza, sono cadute vittime della dittatura delle dipendenze: questo le rende ancora più vicine a noi, perché viene da chiedersi cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati al loro posto. E poi ci sono le storie degli operatori — educatori, psicoterapeuti, psichiatri, coordinatori delle varie strutture — che ogni giorno investono tutte le loro energie nello sforzo di migliorare la vita di persone che la società aveva dimenticato. A prescindere dal risultato che sarà ottenuto. Perché anche solo fare qualcosa per aiutare una persona in difficoltà ripaga dello sforzo che è stato impiegato».

 

Il racconto si colloca nella relazione tra chi narra e chi accoglie ciò che viene narrato. A chi ti rivolgi con questo libro?

«Non avevo in mente un lettore ideale mentre scrivevo. Certo, ho pensato che sarebbero stati interessati gli animi più vicini a tematiche di carattere sociale, ho immaginato che il libro sarebbe potuto diventare un testo utile da presentare nelle scuole, ma essenzialmente quando scrivo cerco soprattutto di fare bene il mio lavoro, il resto viene da sé. In questo caso si trattava di dare voce a chi non ha voce, nel modo più chiaro, neutrale e dettagliato possibile. Chiunque dimostri interesse verso queste pagine mi rende felice».

 

Ogni testo ha un orizzonte postumo che fissa qualcosa per il dopo, qualcosa che prolunga l'esperienza del narratore. Nel caso del tuo libro, quale messaggio miri a lanciare nel futuro?

«Non miro a lanciare nessun messaggio verso il futuro e nemmeno verso il presente. Non sono un politico, non sono una persona religiosa e ho troppo rispetto per l’intelligenza dei lettori. Se un messaggio esiste, si trova nell’onestà di quello che ho scritto, nell’implicita alleanza che si crea fra chi scrive e chi legge. Posso dire però cosa si racchiude nel titolo che ho scelto, “Nessun destino è segnato”. È qualcosa in cui ho sempre creduto: non esiste una vita che non possa essere recuperata, in qualsiasi momento, al di là di qualsiasi cosa sia successa in precedenza. Conoscere il mondo di Casa Emmaus ha rafforzato in me questa convinzione. Come accennavo sopra, parlando degli operatori, in una comunità si concentra lo sforzo delle migliori menti per realizzare un miglioramento che può svanire in un istante. Ma è nella capacità di non smarrire la volontà di agire, nonostante la percezione del dolore del mondo, che secondo me si misura il valore di un individuo».

 

All’interno delle tante presenti nel libro, quale è la storia che ti ha colpito maggiormente?

«La storia di una signora elegante e discreta di circa sessant’anni che nel libro ho scelto di chiamare Fabrizia, per tutelare la sua privacy come ho fatto con gli altri utenti o ex utenti della comunità che mi hanno offerto la loro testimonianza. Mi ha colpito perché apparentemente aveva tutto per essere felice, mentre invece la sua vita si sgretolava senza che quasi se ne rendesse conto, senza che quelli che la circondavano muovessero un dito, forse per quella scarsa attitudine a interessarsi del prossimo che troppo spesso si maschera come discrezione, riservatezza o qualche sinonimo di “buona educazione borghese”. Per aiutare le persone a volte bisogna superare queste ritrosie. Fabrizia poteva essere nostra madre o una nostra zia, nascosta dietro la rispettabilità delle nostre case. Ma in ogni casa, spesso senza rendersene conto, o addirittura col proposito di fare del bene, si mettono in moto dinamiche che possono lasciare cicatrici profonde nel cuore di chi le abita. È un invito che rivolgo a me stesso: fare una domanda in più, se qualcuno non riesce a dire con le parole la sofferenza che rivela il suo sguardo; chiedere cosa c’è che non va, non accontentarsi di risposte evasive, trovare un po’ di tempo in più per capire come si sente davvero chi abbiamo di fronte. Potrebbe valerne la pena».

 

“Nessun destino è segnato” è già un successo. Hai già pensato al seguito?

«Non ancora, e in senso lato non esiste un seguito vero e proprio per un lavoro di questo tipo, come potrebbe avvenire se si trattasse di un prodotto di finzione, di un romanzo o di un film. Però sono rimasto colpito dal favore che lo sta accogliendo e che ogni giorno mi permette di incontrare sensibilità diverse, unite dall’interesse nei confronti di chi non ha alcun tratto in comune con gli eroi che spesso incontriamo, appunto, nei romanzi o nei film, soprattutto se sono espressioni di esigenze commerciali che trascendono la validità estetica di quanto viene mostrato. Questo non vuol dire che un reportage sia meglio di un racconto inventato. Non ha senso stilare graduatorie di questo tipo. Ma è vero che sempre di più, in un periodo storico in cui siamo costantemente illusi di essere connessi con il reale, in genere attraverso supporti tecnologici che non siamo più in grado di padroneggiare, il desiderio di accedere a storie “vere”, di conoscere “vite vissute” sta intercettando un interesse crescente nel pubblico dei lettori. Quindi perché no? Mi piacerebbe tornare ad affrontare queste tematiche, ma non escludo che avvenga attraverso nuove modalità espressive. “Nessun destino è segnato” potrebbe costituire ad esempio una buona base per realizzare un documentario. Vediamo anche cosa il futuro saprà portarci, stilare programmi troppo precisi è il modo migliore per disattenderli, se devo basarmi sulla mia relativa esperienza».

 

Ultima modifica il Giovedì, 18 Febbraio 2021 19:54
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